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Globale

Il tempo è vita

Perché in ospedale hanno messo così tanto tempo a rendersi conto che era stata colpita da ictus? Come sarebbe stata la sua vita se fosse stata curata prima?
Angels team 31 maggio 2020

Erano circa le 16:30 quando Michelle avvertii i primi sintomi. Era impegnata a spostare i mobili per pulire il soggiorno e improvvisamente si è sentita male. Appoggiandosi al muro, si è accovacciata per tentare di riprendersi. Quando ha provato a rialzarsi, non è riuscita a muovere il corpo. Ha chiesto aiuto a suo marito, ma non ha emesso alcun suono.

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Quando il marito ha trovato Michelle sul pavimento è stato colto dal panico senza sapere cosa fare. Ha telefonato alla figlia, la quale gli ha detto di chiamare un’ambulanza. Michelle è arrivata in ospedale intorno alle 17:20, a malapena cosciente e ancora incapace di parlare e di muovere la mano destra.

Curiosamente, in ospedale nessuno si è affrettato durante l’attesa di un medico. Forse perché Michelle non sembrava soffrire e se ne stava tranquillamente distesa sul lettino del pronto soccorso, mentre venivano assistiti pazienti “più gravi”. Solo dopo 6 ore un’infermiera si è preoccupata del fatto che i suoi sintomi non fossero migliorati e ha chiamato uno specialista. Lo specialista ha richiesto una TC, che ha mostrato un ictus grave. A quel punto era troppo tardi per somministrare la trombolisi ed è stato avviato il trattamento di supporto.

Dopo aver trascorso il mese successivo dentro e fuori dall’UTI, Michelle è stata trasferita in un ospedale per la riabilitazione dei pazienti con ictus. Due mesi dopo, i familiari erano felici che i medici si stessero preparando a rimuovere la tracheostomia. Fino a quel momento avevano cercato di capire Michelle leggendo le sue labbra, poiché non riusciva a parlare a causa della tracheostomia. Tuttavia, in seguito alla rimozione, non hanno potuto nascondere la loro delusione perché le parole che pronunciava erano per lo più incomprensibili. Il logopedista le diagnosticò l’afasia di Wernicke, ovvero la capacità di parlare fluentemente ma senza che le parole avessero significato.

Ora Michelle è a casa e ha mostrato un lieve recupero. È riuscita a riprendere il controllo dei movimenti intestinali, ma per sicurezza indossa ancora pannoloni per adulti. Riesce a camminare con un po’ di aiuto e sta iniziando a usare la mano destra per pettinarsi di nuovo i capelli, ma il suo linguaggio è ancora pesantemente compromesso.

Ma, soprattutto, l’impatto maggiore dell’ictus di Michelle è senza dubbio quello provocato a livello psicologico, sia per lei che per la sua famiglia. Michelle è in cura con due antidepressivi, ma è regolarmente soggetta a scoppi di forte depressione durante i quali grida o manifesta scatti di rabbia estrema contro chiunque si trovi nelle vicinanze in quel momento. La sua vita di un tempo non esiste più e la persona che era è solo un lontano ricordo.

Le persone che la conoscono stentano a riconoscerla in questo periodo. Michelle era una donna dinamica, un’insegnante rispettata, moglie, madre e nonna. Ora è difficile immaginare che questa donna fosse abituata a governare il mondo intorno a lei con il pugno di ferro.

Tutto ciò che rimane sono domande senza risposta. Perché ci è voluto così tanto tempo in ospedale prima che qualcuno si rendesse conto che era stata colpita da ictus? Come sarebbe stata la sua vita se fosse stata curata prima?

La mission di Angels ha lo scopo di offrire ai pazienti con ictus come Michelle la migliore opportunità di uscire dall’ospedale e di vivere la vita di prima. L’ictus deve essere riconosciuto precocemente e trattato come un’emergenza. Il trattamento nelle reti organizzate di cura dell’ictus fa la differenza, una differenza più grande di quanto possiamo immaginare.

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